
Situato nel cuore del centro antico di Napoli, il Museo Cappella Sansevero, creata da Raimondo di Sangro, settimo principe di Sansevero è un gioiello del patrimonio artistico internazionale. In essa, bellezza e mistero s’intrecciano creando qui un’atmosfera unica, quasi fuori dal tempo.
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La cappella Sansevero (detta anche chiesa di Santa Maria della Pietà o Pietatella) è tra i più importanti musei di Napoli. Situata nelle vicinanze della piazza San Domenico Maggiore, questa chiesa, oggi sconsacrata, è attigua al palazzo di famiglia dei principi di Sansevero, da questo separata da un vicolo una volta sormontato da un ponte sospeso che consentiva ai membri della famiglia di accedere privatamente al luogo di culto.
Tra capolavori come il celebre Cristo velato, la cui immagine ha fatto il giro del mondo per la prodigiosa “tessitura” del velo marmoreo, meraviglie del virtuosismo come il Disinganno ed enigmatiche presenze come le Macchine anatomiche, la Cappella Sansevero rappresenta uno dei più singolari monumenti che l’ingegno umano abbia mai concepito.
Cosa Vedere:
Per info aggiuntive, e anche per orari e biglietti, vedi sito ufficiale:
Tempo per la visita:
Il costo dell’audioguida è 4,5 euro. Il biglietto di ingresso deve essere prenotato on line e costa 10 euro. E’ consigliabile l’audioguida, che è prenotabile on line per 4,5 euro.
Per una visita completa, bisogna prevedere 1-2 ore.
Dove si trova l’ingresso della cappella di San Severo.
Da Spaccanapoli, salire verso via dei Tribunali all’altezza di piazza San Domenico.
Da via dei Tribunali, scendere per via Nilo e seguire i cartelli.
Storia
Oltre a essere stato concepito come luogo di culto, il mausoleo è soprattutto un tempio massonico carico di simbologie, che riflette il genio e il carisma di Raimondo di Sangro, settimo principe di Sansevero, committente e allo stesso tempo ideatore dell'apparato artistico settecentesco della cappella.
Origini
Nel tempo ha avuto origine un gran numero di leggende sulla Cappella Sansevero e sul suo ideatore, Raimondo di Sangro: i laboratori situati nelle cantine del palazzo di famiglia, adiacente alla cappella, gli improvvisi bagliori che ne scaturivano e le invenzioni che lì avevano origine stimolavano infatti la fervida fantasia dei napoletani.
Alcune di queste leggende erano tutt'altro che lusinghiere: si dice, ad esempio, che il Principe «fece uccidere due suoi servi» per «imbalsamarne stranamente i corpi» (riferendosi alle macchine anatomiche); «ammazzò [...] nientemeno che sette cardinali» utilizzando la loro pelle e le loro ossa per realizzare delle sedie; accecò lo scultore Giuseppe Sanmartino per far sì che non fosse in grado di riprodurre per altri un'opera straordinaria come il Cristo velato; «entrava in mare con la sua carrozza e i suoi cavalli [...] senza bagnare le ruote» e «riduceva in polvere marmi e metalli».
Un'altra leggenda riguarda invece le circostanze della morte di Raimondo. La riporta Benedetto Croce: «Quando sentì non lontana la morte, provvide a risorgere, e da uno schiavo moro si lasciò tagliare a pezzi e ben adattare in una cassa, donde sarebbe balzato fuori vivo e sano a tempo prefisso; senonché la famiglia [...] cercò la cassa, la scoperchiò prima del tempo, mentre i pezzi del corpo erano ancora in processo di saldatura, e il principe, come risvegliato nel sonno, fece per sollevarsi, ma ricadde subito, gettando un urlo di dannato».
La diceria più famosa riguarda infine nuovamente il Cristo Velato, affermando che il velo fosse in origine un vero tessuto, trasformato in marmo da Raimondo per mezzo di un qualche misterioso processo alchemico.
Mentre una leggenda vuole che la chiesa sia stata eretta su un preesistente antico tempio dedicato alla dea Iside, un'altra, riportata nel 1623 da Cesare d'Engenio Caracciolo nel suo Napoli Sacra, narra che un uomo, ingiustamente arrestato, veniva tradotto verso il carcere quando, transitando lungo il muro della proprietà dei Sansevero, si votò alla Santa Vergine. Improvvisamente, parte del muro crollò, rivelando un dipinto (quello posto nella cappella in cima all'altare maggiore) proprio della Vergine invocata, una pietà che darà poi il nome alla chiesa, intitolata appunto a Santa Maria della Pietà. La devozione dell'arrestato non fu riposta invano giacché, poco tempo dopo, ne venne riconosciuta l'innocenza. Scarcerato, l'uomo, memore del miracolo, fece restaurare la Pietà, disponendo che al suo cospetto ardesse per sempre una lampada in argento.
Il luogo sacro divenne presto meta di pellegrinaggio popolare e conseguente oggetto di invocazioni. Anche il duca di Torremaggiore, Giovan Francesco di Sangro, colpito da grave malattia si votò a questa Madonna e in seguito avendo recuperato la salute fece erigere la piccola cappella di Santa Maria della Pietà, comunemente detta la Pietatella.
Secondo studi recenti, la vera origine della cappella sarebbe invece da far risalire all'omicidio, compiuto nella notte tra il 16 e il 17 ottobre 1590 da Carlo Gesualdo da Venosa, in cui morirono Maria d'Avalos, moglie di Carlo Gesualdo, e l'amante di lei Fabrizio Carafa, figlio di Adriana Carafa della Spina, moglie in seconde nozze di Giovan Francesco di Sangro e prima principessa di Sansevero. In conseguenza di questo evento luttuoso, la madre di Fabrizio Carafa avrebbe fatto edificare la cappella, pensandola come voto alla Madonna per la salvezza eterna dell'anima del figlio. A riprova di tale ipotesi, l'iscrizione in latino «Mater Pietatis», presente sulla volta della Pietatella e contenuta in un sole raggiante, rappresenterebbe il voto di dedica dell'edificio alla Madonna.
Qualunque sia stata la sua origine, è accertato che i lavori edili per la costruzione della chiesetta gentilizia iniziarono nel 1593, come si deduce da alcune polizze in possesso del Banco di Napoli. Già venti anni più tardi Alessandro di Sansevero (figlio di Giovan Francesco), Patriarca di Alessandria e Arcivescovo di Benevento, decise di ampliare la preesistente, piccola costruzione, per renderla degna di accogliere le spoglie di tutti i di Sangro, come testimoniato dalla lapide marmorea datata 1613 posta sopra l'ingresso principale dell'edificio.
Dal momento che l'assetto del tempio gentilizio venne riorganizzato da Raimondo di Sangro nel Settecento, ben poco rimane della Pietatella del XVII secolo. Il restauro settecentesco mantenne inalterate le dimensioni perimetrali e quattro dei mausolei laterali. Oltre a ciò, dell'originale cappella seicentesca è rimasta solo la decorazione policroma dell'abside e quattro statue.
Grazie a documenti dell'epoca, tuttavia, ci è dato sapere che già nel Seicento la cappella disangriana doveva essere caratterizzata da un elevato valore artistico. Basti pensare che Pompeo Sarnelli, nella sua Guida de' forestieri, curiosi di vedere, e d'intendere le cose più notabili della regal città di Napoli, e del suo amenissimo distretto, la descrisse come:
«[...] grandemente abbellita con lavori di finissimi marmi, intorno alla quale sono le statue di molti degni personaggi di essa famiglia co’ loro elogi»
Appartengono alla fase seicentesca della cappella il monumento al primo principe di Sansevero Giovan Francesco di Sangro, realizzato probabilmente da Giacomo Lazzari nella prima metà del XVII secolo e collocato nella seconda cappella laterale sulla sinistra; la statua del secondo principe Paolo di Sangro, di incerta attribuzione e situata nella prima nicchia sulla destra; il monumento a Paolo di Sangro quarto principe di Sansevero che si trova nella prima nicchia sulla sinistra, opera del 1642 di Bernardo (o Bernardino) Landini e Giulio Mencaglia; e il monumento al Patriarca di Alessandria Alessandro di Sangro, situato nel lato sinistro della cappella nei pressi dell'altare e opera di un artista ignoto.
La sistemazione seicentesca della cappella fu stravolta a partire dagli anni quaranta del Settecento, quando il principe Raimondo di Sangro iniziò ad ampliarla e a commissionare diverse opere d'arte con cui arricchirla, al fine di creare un luogo che testimoniasse la grandezza del suo casato.
Negli anni successivi, il principe Raimondo ingaggiò artisti di fama internazionale quali Giuseppe Sanmartino, Antonio Corradini, Francesco Queirolo e Francesco Celebrano: è in questo periodo che vennero realizzati capolavori come il Cristo velato, il Disinganno e la Pudicizia. Raimondo impiegò buona parte delle sue sostanze, e in più occasioni dovette anche contrarre dei debiti, per portare a compimento la realizzazione della cappella. Era un committente generoso, ma anche molto esigente e spesso dirigeva personalmente i lavori, affinché le opere corrispondessero pienamente al ruolo che era stato loro stabilito all'interno del grande progetto iconografico della cappella. In alcuni casi, fu lo stesso Principe a realizzare anche i materiali utilizzati, come per il cornicione sopra gli archi delle cappelle laterali o per i colori dell'affresco sulla volta.
Alla fine dei lavori, all'esterno della porta laterale della Pietatella fu posta una lapide, che riporta la data del 1767.
«Chiunque tu sia, o viandante, cittadino, provinciale o straniero, entra e devotamente rendi omaggio alla prodigiosa antica opera: il tempio gentilizio consacrato da tempo alla Vergine e maestosamente amplificato dall’ardente principe di Sansevero don Raimondo di Sangro per la gloria degli avi e per conservare all’immortalità le sue ceneri e quelle dei suoi nell’anno 1767. Osserva con occhi attenti e con venerazione le urne degli eroi onuste di gloria e contempla con meraviglia il pregevole ossequio all’opera divina e i sepolcri dei defunti, e quando avrai reso gli onori dovuti profondamente rifletti e allontanati»
Il trio d'eccellenza della Cappella è composto dal Cristo velato, dalla Pudicizia e dal Disinganno, tre opere d'arte volute da Raimondo di Sangro quando pose mano all'ampliamento e arricchimento del tempio. Il Principe voleva farne, infatti, una struttura maestosa che celebrasse degnamente la gloria del casato dei di Sangro.
La notte tra il 22 e il 23 settembre 1889, a causa di un'infiltrazione d'acqua, crollò il ponte che collegava il mausoleo dei Sansevero con il vicino palazzo di famiglia. A causa di quest'evento, che interessò anche parte della cappella e del palazzo signorile, oltre al camminamento andarono persi gli affreschi sotto il gariglione e il disegno labirintico del pavimento della cappella.
I restauratori si trovarono nell'impossibilità di ripristinare la pavimentazione originale, seriamente danneggiata, e nel 1901 optarono per ripavimentare la cappella in cotto napoletano, mentre lo stemma dei di Sangro al centro del pavimento fu realizzato con smalti giallo e azzurro che riprendono i colori del casato.
In seguito alla sua trasformazione in polo museale nell'Ottocento la cappella, oltre ad accogliere quotidianamente un consistente numero di turisti, cominciò a essere anche utilizzata come spazio per eventi e concerti. Tra le iniziative del 2013 è possibile ad esempio citare:
la rassegna MeravigliArti, con cui la Pietatella ha ospitato eventi di letteratura, musica e teatro e a un'installazione di arte contemporanea;
La recita Paolo Borsellino, essendo stato (liberamente tratta dall'opera di Ruggero Cappuccio), dove un gruppo di attori ha ricordato Falcone e Borsellino, i due magistrati palermitani considerati eroi simbolo della lotta alla criminalità organizzata.
A testimonianza dell'alto grado di attrattività che il monumento continua a dimostrare, nel 2013 TripAdvisor ha assegnato alla Pietatella il Travellers Choice Attractions 2013, sulla base delle segnalazioni effettuate sul sito da utenti provenienti da tutto il mondo. La cappella, quindi, è risultata essere il museo italiano più apprezzato dagli utenti del portale, davanti a mete più tradizionali come i Musei Vaticani o la Galleria degli Uffizi di Firenze. Nella speciale classifica dedicata ai siti museali europei, guidata dal Museo del Louvre e del British Museum, la cappella si è invece classificata al nono posto assoluto.
Cenni architettonici
La facciata della cappella, che si apre sulla stretta via Francesco de Sanctis, appare semplice e sobria nelle sue linee, caratteristiche tipiche del principio del XVII secolo in cui è ancora vivo lo spirito classicheggiante. È possibile accedere all'interno tramite il grande portale al centro della facciata, sormontato dallo stemma della famiglia di Sangro e dove si trova la lapide di marmo che ricorda i lavori di Alessandro di Sangro, oppure usufruendo della porticina laterale che si affaccia su calata San Severo.
La chiesetta, tipica espressione del barocco napoletano, è di forma rettangolare ed è costituita da una navata unica, verosimilmente risalente al 1593. Lungo le pareti laterali otto archi a tutto sesto, quattro per lato, introducono altrettante cappellette laterali, mentre un ulteriore grande arco separa l'area del presbiterio, situata in fondo alla chiesa e occupata dall'altare maggiore. Al centro dei due lati lunghi, rispettivamente a sinistra e destra di chi entra, si aprono la porta laterale di cui si è già detto e l'accesso alla sacrestia e alla cosiddetta cavea sotterranea.
Al di sopra degli archi l'intera lunghezza della cappella è percorsa da un cornicione, realizzato con un mastice ideato dal principe Raimondo, al di sopra del quale si diparte la volta a botte, completamente affrescata dal dipinto realizzato da Francesco Maria Russo conosciuto come Gloria del Paradiso. Alla base della volta, subito sopra il cornicione, si aprono le sei finestre strombate che forniscono luce alla cappella.
Tutte le opere d'arte contenute all'interno della struttura, con l'eccezione di quattro, furono commissionate da Raimondo di Sangro, e a lui si doveva anche la pavimentazione settecentesca, costituita da un intarsio marmoreo bianco e nero simboleggiante un labirinto; alla loro realizzazione hanno contribuito autori come Francesco Celebrano, Antonio Corradini, Francesco Queirolo e Giuseppe Sanmartino.
Infine, al di sopra della porta maggiore, è collocata una piccola tribuna, dalla quale partiva il passaggio di collegamento tra la cappella e il Palazzo di Sangro, finemente stuccato, andato distrutto nel citato crollo del 1889.
L'elemento più notevole della Cappella Sansevero è senza dubbio il suo corredo di statue, il quale segue un progetto iconografico attentamente studiato e voluto da Raimondo di Sangro e del quale gli artisti che lavorarono alle diverse opere furono spesso meri esecutori.
Elemento portante di tale progetto sono le dieci statue denominate Virtù, addossate ad altrettanti pilastri, di cui nove dedicate alle consorti di nove membri della famiglia Sansevero e una - il Disinganno - dedicata ad Antonio di Sangro, padre del principe Raimondo.
All'interno delle cappelle laterali e inframmezzati alle statue delle Virtù si trovano invece i monumenti funebri di diversi principi e altri esponenti celebri della casata, compresi lo stesso Raimondo di Sangro e suo figlio Vincenzo, che al momento della realizzazione delle opere erano ancora in vita. La funzione principale della Cappella Sansevero era infatti quella di cappella sepolcrale della famiglia di Sangro e l'intenzione di Raimondo era quella di onorare il proprio casato ed esaltare le virtù e le glorie dei suoi esponenti.
Nell'impianto statuario, e in particolare nelle raffigurazioni delle Virtù, è inoltre possibile notare una serie di significati allegorici, spesso riferiti al mondo della massoneria, di cui Raimondo di Sangro era Gran maestro.
All'interno del progetto del principe Raimondo le Virtù vogliono rappresentare le tappe di un cammino spirituale, paragonabile a quello dell'iniziato massone, che conduca a una migliore conoscenza e al perfezionamento di sé. Parte integrante di questo percorso è il pavimento labirintico, che rappresenta le difficoltà del cammino che porta alla conoscenza.
La quasi totalità delle Virtù è stata modellata secondo le norme iconografiche stabilite da Cesare Ripa nella sua Iconologia, opera particolarmente apprezzata da Raimondo che, tra l'altro, ne finanziò una riedizione in cinque volumi. Esse però non seguono totalmente il modello classico, ma vi introducono alcune novità, ognuna delle quali con un preciso significato.
Nella rappresentazione della Pudicizia - opera dedicata a Cecilia Gaetani, la madre di Raimondo di Sangro - ad esempio la figura femminile velata è vista come un riferimento alla dea egizia Iside, che rivestiva un ruolo importante nella scienza iniziatica. Sempre nella stessa statua la lapide spezzata fa riferimento alla morte prematura della nobildonna, mentre l'incensiere ai piedi della statua ricorda quelli utilizzati durante le cerimonie massoniche. Il ramo di quercia che sembra fuoriuscire dal basamento della scultura è forse un rimando all'albero della conoscenza, mentre un'altra interpretazione lo vede come l'albero della vita.
La cuspide di piramide che si può notare alle spalle della Liberalità, della Soavità del giogo coniugale, della Sincerità e dell'Educazione è un elemento comune nelle raffigurazioni funebri dell'epoca e simboleggia la gloria dei principi.
Un significato legato alla massoneria è visibile anche nel monumento a Cecco di Sangro. La curiosa raffigurazione del guerriero, situato proprio al di sopra della porta di ingresso della cappella, che, armato, esce da una bara, ha portato alla sua interpretazione come quella del guardiano del tempio massonico. Il tema della risurrezione, che si ritrova anche nel Cristo velato, nella Deposizione alle spalle dell'altare maggiore e nel bassorilievo della Pudicizia è inoltre uno dei temi più ricorrenti nella cappella.
Elemento centrale della rappresentazione moderna, il Cristo velato nelle intenzioni del Principe doveva essere collocato nella «cavea sotterranea», insieme ai futuri sepolcri dei Sansevero, e illuminato da lampade perpetue di ideazione del principe Raimondo. È probabile però che l'opera non sia mai stata portata all'interno della cavea.[43]
Opere maggiori
La Cappella Sansevero è un concentrato di opere scultoree e pittoriche, e la prima che si nota appena entrati nell'edificio è l'affresco che ne orna il soffitto, noto come Gloria del Paradiso o il Paradiso dei Sangro, opera del poco conosciuto pittore Francesco Maria Russo che, come riportato nell'affresco stesso, lo realizzò nel 1749. Di esso colpisce, a distanza di due secoli e mezzo dalla realizzazione, la brillantezza dei colori, anche in questo caso dovuti all'inventiva di Raimondo di Sangro e alla sua pittura definita «oloidrica».
L'affresco del soffitto termina, in corrispondenza delle finestre, con sei medaglioni monocromi, in verde, con i Santi protettori del Casato: San Berardo di Teramo, San Berardo cardinale dei Marsi, Santa Filippa Mareri, San Oderisio, San Randisio e Santa Rosalia.
Al di sotto di questi, in corrispondenza degli archi delle sei cappelle più vicine all'altare, sono presenti sei medaglioni marmorei, opera di Francesco Queirolo, con le effigi di sei cardinali originari della famiglia di Sangro.
Per l'impianto statuario, il Principe chiamò lo scultore Antonio Corradini, veneto e massone, che riuscì però a ultimare solo le statue della Pudicizia (dedicata alla madre prematuramente scomparsa del principe Raimondo), del Decoro e il monumento dedicato a Paolo di Sangro sesto principe di Sansevero, oltre a lasciare alcuni bozzetti per altre opere. Tra queste figura il Cristo velato, la cui realizzazione passò poi a Giuseppe Sanmartino.
1. Cristo velato
L'opera più celebre della Cappella Sansevero è senza dubbio il Cristo velato, posto al centro della navata centrale. Originariamente la statua doveva essere scolpita da Antonio Corradini, già autore della Pudicizia, del Decoro e della statua dedicata al sesto principe di Sansevero Paolo di Sangro. Corradini però morì nel 1752 senza riuscire a completare l'opera, ma realizzandone solo un bozzetto in terracotta.[51]
Raimondo fu quindi costretto ad affidarsi al talento di Giuseppe Sanmartino, che ebbe così l'opportunità di realizzare «una statua di marmo scolpita a grandezza naturale, rappresentante Nostro Signore Gesù Cristo morto, coperto da un sudario trasparente realizzato dallo stesso blocco della statua». Giuseppe Sanmartino, in ogni caso, tenne poco conto dei bozzetti precedentemente disegnati da Corradini, ripartendo quindi con un nuovo progetto.
Si trattava di un Cristo, sdraiato su un materasso, con il capo sorretto da due cuscini e inclinato lateralmente, il cui corpo è ricoperto da un velo che aderisce perfettamente alle forme del viso e al corpo stesso, tanto che sono visibili le ferite del martirio. Al lato si trovano gli strumenti del supplizio: una realistica corona di spine, una tenaglia e dei chiodi, uno dei quali sembra quasi pizzicare il velo del sudario.
È proprio il velo l'elemento della statua più notevole e che meglio evidenzia l'abilità dello scultore. Analogamente a quanto avviene con la Pudicizia del Corradini, il velo copre il corpo, senza però celarlo; Sanmartino riuscì però a imprimere al panno una plasticità e un movimento che si discostano dai più rigidi canoni del maestro veneto. Il velo aderisce alle ferite del corpo del Cristo e al costato scavato, mettendone ancora più in luce, anziché nasconderle, il dolore e la sofferenza.
La fama di alchimista e inventore che ha accompagnato Raimondo di Sangro ha fatto nascere la leggenda che l'incredibile trasparenza del velo sia dovuta al fatto che si tratterebbe in realtà di una vera stoffa, misteriosamente trasformata in marmo per mezzo di qualche processo chimico di invenzione del Principe. In realtà una attenta analisi non lascia dubbi sul fatto che l'opera sia stata realizzata interamente in marmo, e questo è anche confermato da alcune lettere dell'epoca a firma del principe di Sangro, nelle quali egli afferma che il sudario è stato «realizzato dallo stesso blocco della statua».
2. Pudicizia
La Pudicizia (anche detta Pudicizia velata) è dedicata a Cecilia Gaetani dell'Aquila d'Aragona, madre di Raimondo di Sangro, che morì nel dicembre del 1710, meno di un anno dopo la nascita del figlio.]
La statua fu realizzata da Antonio Corradini, già autore del Decoro, del monumento al sesto principe di Sansevero Paolo di Sangro e dei bozzetti in creta di molte delle altre opere, delle quali aveva studiato l'iconografia insieme al principe Raimondo; l'artista, tuttavia, morì nel 1752, anno di realizzazione della Pudicizia, come è testimoniato da una lapide posta alla base dell'opera che riporta la scritta «dum reliqua huius templi ornamenta meditabatur».
La scultura raffigura una donna completamente coperta da un velo semitrasparente, cinta in vita da una ghirlanda di rose, che ne lascia intravedere le forme e in particolare i tratti del viso. Essa è considerata il capolavoro del Corradini (già autore in passato di altre figure velate), del quale è elogiata l'abilità nel modellare il velo che aderisce con naturalezza al corpo della donna.
La composizione è carica di significati: la lapide spezzata sulla quale la figura appoggia il braccio sinistro, lo sguardo come perso nel vuoto e l'albero della vita che nasce dal marmo ai piedi della statua simboleggiano la morte prematura della principessa Cecilia. Il tema della vita e della morte è ripreso dal bassorilievo del pilastro su cui poggia la statua, raffigurante l'episodio biblico conosciuto come Noli me tangere, nel quale Gesù risorto dice alla Maddalena di non cercare di trattenerlo.
Con tutta probabilità la statua è anche un'allegoria alla sapienza, con un riferimento alla velata Iside, dea egizia della fertilità e della scienza iniziatica; questa associazione è fortificata dal fatto che secondo una tradizione nell'antichità nella medesima posizione in cui fu collocata la Pudicizia si trovava proprio una statua dedicata alla dea Iside. Va inoltre ricordato che il Corradini, oltre ad aver collaborato con Raimondo di Sangro nell'ideazione del significato iconografico della cappella, era a sua volta affiliato alla massoneria e doveva quindi essere bene a conoscenza della simbologia delle opere a cui lavorò.
3. Disinganno
«... l’ultima pruova ardita, a cui può la scultura in marmo azzardarsi.»
(Giangiuseppe Origlia, Istoria dello Studio di Napoli (1753-54): ovviamente, il riferimento è alla virtuosistica esecuzione della rete.
Il Disinganno è, insieme alla Pudicizia e al Cristo velato, una delle tre opere principali della cappella, riportate nelle guide artistiche già negli anni immediatamente seguenti la loro realizzazione. L'opera del Queirolo è dedicata ad Antonio di Sangro, padre del principe Raimondo e raffigura un uomo che si libera da una rete, simboleggiante il peccato da cui era oppresso: in seguito alla morte della giovane moglie, avvenuta solo un anno dopo la nascita del figlio, il duca Antonio condusse infatti una vita disordinata e dedita ai vizi viaggiando in tutta Europa, mentre il giovane Raimondo era stato affidato al nonno paterno Paolo di Sangro.
Ormai anziano, Antonio di Sangro tornò però a Napoli e, pentito dei peccati commessi, abbracciò la fede e si dedicò a una vita sacerdotale.
Nella composizione marmorea l'uomo è aiutato a liberarsi dalla rete del peccato da un putto, simbolo dell'intelletto umano, che con la mano destra indica il globo terrestre, simbolo della mondanità, adagiato ai suoi piedi. L'elemento della fede attraverso cui è possibile liberarsi dagli errori commessi è rappresentato dalla bibbia aperta appoggiata al globo e dal bassorilievo sul basamento del pilastro, che raffigura l'episodio biblico di Gesù che dona la vista al cieco.
Lo storico Giangiuseppe Origlia nella sua Istoria dello studio di Napoli afferma che il Disinganno è, come iconografia, «tutta d'invenzione del Principe, e nel suo genere totalmente nuova». In essa è possibile rilevare anche riferimenti alla massoneria, come il fatto che durante le iniziazioni per entrare nella loggia gli aspiranti erano inizialmente bendati e in seguito era loro permesso di aprire gli occhi e comprendere la verità. L'elemento che maggiormente colpisce della scultura è sicuramente la fitta rete, completamente in marmo, prova della maestria del Queirolo. La composizione è completata da una lapide in cui Antonio di Sangro è indicato come esempio della «fragilità umana, cui non è concesso avere grandi virtù senza vizi».
4. Tomba di Raimondo di Sangro
La tomba di Raimondo di Sangro si trova in una nicchia all'ingresso del passaggio che conduce alla sacrestia. Essa fu realizzata nel 1759, quando il Principe era quindi ancora in vita, da Francesco Maria Russo, probabilmente basandosi su un progetto dello stesso Raimondo.
Di aspetto semplice e sobrio, l'opera è composta da una grande lapide in marmo rosa con l'elogio del principe Raimondo al di sopra del quale si trova una cornice di marmo con il ritratto del dedicatario. Il dipinto è sormontato da un grande arco decorato con armi, libri, strumenti scientifici e altri emblemi commemorativi delle glorie militari e scientifiche di Raimondo di Sangro.
L'elemento più notevole del monumento è probabilmente l'elogio funebre, che ricorda le onorificenze ricevute e i titoli nobiliari di cui poteva fregiarsi e allo stesso tempo esalta le sue doti di scienziato e sperimentatore e il suo ruolo di committente e ideatore della cappella. La scritta sulla lapide di marmo non è incisa ma in rilievo, come in rilievo è anche la decorazione con grappoli d'uva e motivi vegetali sul perimetro della lapide. La precisione della decorazione marmorea fa pensare che non sia stato usato lo scalpello, ma sarebbe invece stata realizzata tramite un composto di solventi chimici di invenzione del principe Raimondo. Le scritte di colore bianco dovevano in origine risaltare molto sul colore rosa della lastra di marmo, ma questa colorazione appare ormai sbiadita.
Il ritratto di Raimondo di Sangro fu realizzato da Carlo Amalfi, che dipingerà in seguito, con la stessa tecnica dell'olio su rame, anche il ritratto di suo figlio Vincenzo. La sua datazione non è sicura: mentre la cornice marmorea che lo circonda fu realizzata insieme al resto del monumento funebre del 1759, il dipinto potrebbe risalire a qualche anno più tardi.
Il ritratto, privo di significati iconografici, raffigura semplicemente il principe Raimondo, ormai in età avanzata, con indosso una corazza. Esso è l'unico dipinto del Principe sopravvissuto fino al giorno d'oggi. È certo che alcuni anni prima Carlo Amalfi avesse realizzato un altro ritratto andato perduto, di cui fortunatamente è sopravvissuta una incisione settecentesca di Ferdinando Vacca. Essa mostra un ritratto giovanile di Raimondo di Sangro con il petto attraversato dalla fascia dell'Ordine di San Gennaro, onorificenza che aveva ottenuto nel 1740.
Diversamente dalle altre opere della cappella, compreso il ritratto di Vincenzo di Sangro realizzato solo pochi anni dopo e con la medesima tecnica, il ritratto sulla tomba di Raimondo di Sangro appare rovinato. Inevitabilmente questo dettaglio ha alimentato le già molte leggende esistenti intorno alla figura del Principe, facendo nascere la diceria che il ritratto sarebbe stato maledetto. Più prosaicamente il cattivo stato di conservazione dell'opera è probabilmente dovuto solo alla sua collocazione: al di sopra del monumento funebre si trova infatti un lucernario in vetro che nel corso dei secoli è risultato insufficiente a garantire un'adeguata protezione dagli agenti atmosferici.
5. Macchine anatomiche
Le due cosiddette macchine anatomiche, custodite all'interno della cavea, sono uno dei maggiori punti di interesse della cappella. Si tratta degli scheletri di due individui, un uomo e una donna, completamente scarnificati e allestiti in posizione eretta. Al di sopra di ciascun scheletro è fedelmente riprodotto, fino nei particolari più minuti, l'intero sistema circolatorio. Secondo la tradizione più nota essi furono realizzati dal medico palermitano Giuseppe Salerno intorno al 1763, sotto la direzione dello stesso Raimondo di Sangro, seguendo un procedimento a tutt'oggi non completamente chiarito. Secondo un recente saggio del docente napoletano Sergio Attanasio invece il principe di Sangro non sarebbe direttamente intervenuto nella realizzazione dei due corpi, ma li avrebbe acquistati da Giuseppe Salerno quando erano già completati.
Queste strane creazioni furono descritte con dovizia di particolari per la prima volta già nella Breve Nota, una guida settecentesca al Palazzo di Sangro e all'adiacente cappella, che riporta l'esistenza anche del «corpicciuolo d'un feto» con tanto di placenta. Questa terza «macchina» è rimasta visibile fino agli ultimi decenni del XX secolo, quando fu rubata. Le macchine si trovavano inizialmente nel cosiddetto Appartamento della Fenice del Palazzo di Sangro, e furono portate nella cavea della cappella solo anni dopo la morte di Raimondo di Sangro.
Il grado di precisione raggiunto nella rappresentazione di arterie, vene e capillari, unito alla fama di alchimista di Raimondo di Sangro, è tale che fino all'età contemporanea si è ritenuto che si trattasse effettivamente di tessuti viventi, la cui conservazione fosse stata ottenuta attraverso un misterioso procedimento alchemico. Secondo la leggenda, citata già nella guida settecentesca e tramandata tra gli altri anche da Benedetto Croce, Raimondo avrebbe fatto iniettare nel sistema circolatorio di due dei suoi servi una sostanza speciale di sua creazione, la quale avrebbe «metallizzato» i vasi sanguigni permettendo la loro conservazione nei tempo.
«[...] fece uccidere due suoi servi, un uomo e una donna, e imbalsamarne stranamente i corpi in modo che mostrassero nel loro interno tutti i visceri, le arterie e le vene.»
(Benedetto Croce, Scritti di storia letteraria e politica)
Secondo uno studio contemporaneo, invece, l'eccezionale reticolato vascolare è il frutto di una ricostruzione effettuata con diversi materiali, tra cui filo di ferro, seta, coloranti e cera d'api. Gli scheletri e i teschi sono invece vere ossa umane.








